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L’editoriale di Ottobre 2017: La parabola dei ciechi

In chiesa e durante una funzione religiosa possono capitare delle sorprese, sorprese che rievocano altre sorprese.
Mi è successo mentre ascoltavo la parabola evangelica del cieco che guida un altro cieco, riportata da Luca (VI,39) e da Marco (XV,14). E’ tornato immediatamente alla memoria un quadro di Pieter Bruegel il Vecchio (pittore olandese del ‘500, indicato come il Vecchio per distinguerlo dal figlio primogenito, detto il Giovane), conservata alla Galleria Nazionale di Capodimonte. Nell’opera Bruegel, chiamata, appunto, “La Parabola del cieco”, ha voluto descrivere che «Se un cieco guida un altro cieco, entrambi cadono in qualche fosso».
Osservando il dipinto (è possibile anche su internet) si materializzano le figure di cinque uomini che, procedendo in fila indiana, ciascuno di loro si sostiene a chi lo precede, attraversano la tela. Sorpresa, c’è anche un sesto uomo, quello che era in testa alla fila (qualche riga e comprenderete meglio “l’era”), rappresentato all’estrema sinistra, si scorge solo poi: è caduto in un fosso e vi giace con le mani tese verso l’alto. Quello che lo segue? Rivolge a noi che siamo davanti alla tela uno sguardo che è difficile dimenticare, uno sguardo fatto di orbite che hanno perso gli occhi.
Come andrà a finire? Non è difficile capirlo, sta per fare la stessa fine del precedente. Regge un bastone con cui guida il terzo di quella fila, con lo sguardo perso nel nulla, che re-standogli aggrappato, inevitabilmente lo seguirà nella caduta. Anche gli altri tre, pure evidentemente ciechi, seguiranno lo stesso destino; è solo questione di pochi passi e di pochi istanti. A questo punto, quei due o tre lettori che sono andati avanti nella lettura si chiederanno: «E che c’azzeccano i ciechi di Bruegel con le api?». Un po’ di pazienza, la vostra impazienza sarà presto soddisfatta.
Innanzitutto, appare evidente che stiamo parlando di ciechi che guidano altri ciechi, e dalla chiesa, dalla parabola è inevitabile l’atterraggio sull’oggi. Si arriva, inevitabilmente, alla politica, alla società e al modo in cui procedono alcuni settori dell’apicoltura, la cosa che più ci interessa in questo mo-mento. Dal nostro primo numero stiamo lanciando diversi messaggi su ciò che non va in apicoltura. Messaggi che sono il frutto di quanto ci raccontano non pochi apicoltori.
I lettori si sono certamente accorti che abbiamo, sovente, puntato il dito contro l’incapacità di stare insieme del mondo apistico (Apinsieme non è certo nato a caso) e di fare “gruppo”, per andare tutti insieme verso quelli che sono gli interessi reali dell’apicoltura. È chiaro che se come capofila si mettono soggetti del tutto estranei a questa cultura, che poi è quella delle api, ciechi alle necessità e alle linee di sviluppo, comuni e non privatistiche, del mestiere, si finisce dentro un orrido burrone. Gli interessi di pochi e la tenuta del potere personale a chi servono? Non a caso abbiamo più volte affermato che il settore non può rappresentare solo interessi privati di pochi soggetti ma quelli dell’intera categoria, senza tralasciare gli hobbisti.
Sbagliato? Alzi la mano chi pensa che le Api abbiano una rappresentanza di categoria. Le “conventicole” qui da noi non hanno senso di esistere.
Ci sono delle emergenze che premono come mancata produzione (ormai sono due anni), patologie dell’alveare, cambiamenti climatici, invasione di mieli esteri, ricambio generazionale, deficit di rappresentanza di categoria e continuiamo “bel belli” ad andare avanti senza porci delle domande.
Noi non molleremo e continueremo sulla nostra strada avanti, ma non da ciechi, e voi aiutateci.

Massimo Ilari

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