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L’editoriale di Novembre 2017: Non si muove paglia

La filosofia che ha animato una parte della mia generazione? Quella che s’incontra nelle pagine di “Piccolo è bello”.
Si tratta di uno studio di economia di Ernst Friedrich Schumacher, filosofo ed economista tedesco scomparso nel 1977, le cui elaborazioni partivano dal presupposto di far contare gli interessi della gente, in un’epoca in cui sembrava-no prevalere quelli della grande impresa e della finanza. Sono passati alcuni decenni e “Piccolo è bello” è uno slogan che torna a convincere. Torna in auge proprio oggi perché riemerge con forza la lotta alla globalizzazione e la cultura dei prodotti tipici e “Fatti in Italia”.

Il miele e gli altri prodotti dell’alveare fanno parte di questo imperativo produttivo che mette al primo posto le merci a Km 0, i prodotti di stagione, puliti e che nelle diverse fasi produttive non inquinano, anzi fanno bene all’ambiente: basti solo pensare al lavoro di impollinazione delle api.
Le mutazioni climatiche sempre più preoccupanti stanno a ricordarcelo ogni giorno, è evidente come incidano pesante-mente sulla vita delle api e sulla produzione di miele.
Dunque, il “Piccolo è bello” potrebbe essere ritenuto ad arte la corsia preferenziale per la rinascita del settore apistico?

No di certo… anzi. Se così fosse dovremmo essere contenti del consumo di 400 g pro capite l’anno di miele e del mercato corto. Se così fosse dovremmo essere contenti che, a fronte di una scarsa produzione di miele e altri prodotti dell’alveare italiani, siamo invasi dal miele e dalla Pappa reale cinese (e di altri paesi), dal polline spagnolo, eccetera, eccetera. In realtà, sembra proprio che tutti siano contenti perché va bene così e nessuno muove paglia per modificare una situazione che non è impastata di sostenibilità, ma che, di contro, rende sempre più insostenibile il lavoro dell’apicoltore che fa sempre più fatica a ricavare reddito dalla sua attività. Tutti zitti e tutto va bene.
Si agitano le solite criticità e l’orologio continua a battere sempre lo stesso tocco.

La morale? Nell’editoriale di ottobre abbiamo parlato di ciechi che guidano altri ciechi; in quello di novembre, riprendendo un’intuizione di Massimo Fini, parliamo con forza del fatto che non ci vogliono coscienti e attivi ma ranocchie che, opportunamente stimolate, devono saltare anche quando vorrebbero stare ferme, per non inceppare l’onnipotente meccanismo che vuole un’apicoltura ferma (non piccola), un’apicoltura che non cresca e rimanga impantanata.
Una visione che niente ha a che vedere con piccolo è bello, ma con un interessato “Non si deve muovere paglia”.
Perché? Non è difficile capirlo. La gestione di un orticello per mantenere nelle mani dei soliti noti il presente e il futuro dell’apicoltura. L’avvio al mestiere di apicoltore dei giovani, la crescita produttiva e la commercializzazione richiederebbero la guida di ben altri interpreti.
La stessa cosa sta accadendo con la ligustica come dice Bruno Pasini nell’intervista che ci ha rilasciato in questo numero della Rivista:
Ormai sono di moda Buckfast e Carniche. Di contro, scendono sempre più in basso le nostre specie autoctone, che gli apicoltori impiegano sempre meno. Per quanto mi riguarda allevo solo la ligustica che selezioniamo noi e senza strani incroci. Si fanno troppe chiacchiere e ho paura che se continuerà questo andazzo la ligustica evaporerà”.

Massimo Ilari

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