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FORSE C’È UN PO’ DI CONFUSIONE NELL’ARIA

Anticipiamo il prossimo editoriale del direttore Massimo Ilari che uscirà sul numero di Maggio. I temi trattati sono importanti e meritano il contributo di voi tutti

Nonostante le rassicurazioni che nei giorni successivi ai decreti garantivano agli apicoltori, pur se hobbisti, la possibilità di visitare gli apiari, la confusione che ha interessato le misure di contenimento del covid-19 ha colpito anche il nostro settore. Per dovere di cronaca, dobbiamo segnalare che al nostro giornale sono giunte diverse segnalazioni di apicoltori, peraltro in possesso di partita IVA, che lamentavano di aver subito accertamenti o contestazioni relativi alle ragioni dei movimenti legati al lavoro in apiario. Tutto ciò, senza volere entrare nel merito delle misure adottate dal governo, possiamo dire che ce lo aspettavamo.

Con questo non intendiamo mettere in discussione la professionalità delle forze dell’ordine, ma di contro siamo perfettamente consapevoli di quanto l’apicoltura, più di altre attività agricole già complesse, sfugga alle interpretazioni e alle classificazioni con le quali ci si approccia al mondo del lavoro. Chi, infatti, può dire, a meno che non si tratti di un apicoltore o di un esperto apistico, quali siano i lavori necessari in apiario? Se l’apicoltore ha un minimo di cognizione di causa, sa che nei mesi di marzo e aprile qualsiasi lavoro è necessario e di lavori necessari ce ne sono moltissimi. La ragione? Siamo in quella fase delicatissima in cui si gioca tutta la stagione, combattendo fra sciamature, nutrizione e prime fioriture da raccolto, quali la Robinia. Sono tutti aspetti che logicamente non può conoscere il legislatore o chi è deputato a eseguire generici controlli sulla circolazione delle persone, ragione per cui ci saremmo aspettati che il nostro stesso realismo fosse condiviso anche dalle Associazioni apistiche.

E sì, perché avrebbero dovuto presentare, in questo delicato frangente, alcune linee guida unitarie e condivise per consentire agli apicoltori di lavorare con una maggiore chiarezza normativa. Come sempre, invece, così come avvenuto con emergenze sanitarie che hanno interessato nello specifico l’apicoltura (pensiamo all’avvento di Aethina tumida in Italia), le associazioni si sono presentate divise e balbettanti, se non addirittura silenti.

Ma gli è venuto in mente di alzare il telefono e sentirsi? Visti i risultati pare proprio di NO. Tutto chiaro? Macché! Sin qui la riflessione condotta si è limitata a quanto avviene sul campo, potremmo dire alla fase strettamente agricola.

La faccenda diventa, però, più spinosa se consideriamo il lavoro dell’apicoltore nel suo insieme. Il mestiere dell’apicoltore è molto più complesso di quanto si creda anche tra gli addetti ai lavori perché la fase della produzione, ovviamente fondamentale, si affianca a una successiva fase commerciale, rispetto alla quale le associazioni se nella prima fase sono state balbettanti o silenti, nella seconda si sono date proprio alla macchia.

Se, giustamente, si considera prioritario tutto ciò che accade dall’alveare al laboratorio di smielatura, nessuno può negare l’importanza di quel che succede dall’invasettamento in poi.

Molti apicoltori che hanno ben operato, il che significa che hanno anche sostenuto ingenti costi di gestione per condurre al meglio gli apiari e tenere le api in salute, si troveranno nella necessità non solo di dover vendere tutto il miele prodotto per coprire le spese, ma anche, questo è il senso dell’essere impresa, di raccogliere un utile che vada a costituire un reddito o un incremento del reddito dignitoso. Diversamente che senso ha essere imprenditori?  L’aspetto commerciale, in assenza di una strategia complessiva è demandato al singolo apicoltore, che in un mercato del miele difficile come quello italiano, caratterizzato da un consumo pro-capite più basso al mondo e dalla circolazione di prodotto proveniente dall’estero, deve farsi strada con le sue sole forze.

È  evidente che laddove parliamo di produzioni importanti, che quindi necessitano di sbocchi commerciali nella GDO o comunque in strutture di vendita organizzate, il singolo non può avere una capacità di contrattazione adeguata. Non possiamo pensare che le soluzioni sin qui adottate siano sufficienti.

Forse è il caso che nel settore maturi l’idea di organizzare delle esportazioni di prodotti italiani, anziché continuare a lamentarsi passivamente del prodotto estero che circola in Italia.

Chi nel settore agricolo ha fatto questo, pensiamo all’olio e al vino, ha avuto un incremento di fatturato.

Massimo Ilari

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